Anyuan è una città mineraria della Cina, nota agli inizi del secolo scorso per essere stata un po’ il cuore della Cina rossa (detto per inciso, vi era anche una discreta presenza anarchica ed anarcosindacalista): i massimi dirigenti del Partito Comunista Cinese vi si recarono più volte e la città nel 1922 vide una rivolta che entrò nell’immaginario fondativo del marxismo cinese.(1)
Oggi, però, è ritornata alla ribalta per una serie di scioperi e manifestazioni contro una ristrutturazione capitalistica diretta stavolta dal partito marxista al potere, ancora osannato da varie componenti dei movimenti di opposizione mondiali.
In effetti, il governo ha annunciato di voler procedere a quasi due milioni di licenziamenti in tronco, particolarmente nel settore estrattivo ancora a proprietà pubblica o parzialmente pubblica. Si tratta dell’ennesima applicazione della “nuova normalità” del segretario del partito marxista al potere Xi Jinping, volto alla realizzazione del “sogno cinese”, in grado di reggere alle “nuove sfide”, che comporta il taglio dei “rami secchi” (“aziende zombie”, si dice da quelle parti) che, altrimenti, potrebbero sopravvivere solo grazie agli aiuti di Stato. Ma il numero di due milioni circa di licenziati fatto da Yin Weimin, ministro per le risorse umane e la sicurezza sociale (sic), è ampiamente smentito dalla Reuters che cita fonti altrettanto accreditate che indicano tagli ben più pesanti: ad essere espulsi dal mercato del lavoro dovrebbero essere circa sei milioni di individui. Le stesse fonti affermano che la leadership cinese – bontà sua – potrebbe investire 150 miliardi di yuan (circa 23 miliardi di dollari) nell’arco di tre anni come ammortizzatore sociale.(2)
Sembra chissà che cosa, ma basta dividere 23 miliardi per i tre anni per i sei milioni di licenziati e ne esce la mirabolante somma di circa 1250 dollari annui (solo per tre anni, poi basta) dedicati ad ogni singolo licenziato… una miseria, tenendo conto che è grosso modo la cifra corrispondente ad un paio di mensilità operaie, una mensilità e mezzo impiegatizia, una mensilità di un livello dirigenziale medio/basso.(3)
In ogni caso, la cifra di 150 milioni è puramente ipotetica, dal momento che le dichiarazioni ufficiali ipotizzano cifre assai più basse. Ma niente paura, dal momento che i lavoratori cinesi faranno la fame si, ma in una Cina meno inquinata (non è lercio.it, sono le dichiarazioni ufficiali del governo). D’altronde, il licenziamento in tronco di milioni di lavoratori e la conseguente scomparsa dal ciclo economico dei loro salari, produrrà inevitabilmente un effetto a cascata, con ulteriori licenziamenti di massa, in virtù delle dinamiche del capitalismo di “libero mercato”.
Nello sforzo di inseguire a tutti i costi una “economia di mercato”, tappa imprescindibile e non contraddittoria per la costruzione del socialismo (sic) secondo i dirigenti marxisti cinesi ed i loro epigoni nostrani (4), il partito marxista al potere non è affatto nuovo ad enormi ristrutturazioni di questo genere: nel solo periodo 1998-2003 gli “esuberi” furono ventotto milioni, che furono accompagnati da una spesa di undici miliardi e duecento milioni di dollari (per la stupefacente cifra complessiva di 400 dollari a testa a licenziato…).
D’altronde, a dimostrazione ulteriore del fatto che il partito marxista al potere non si comporta in modo differente dalle loro controparti dichiaratamente capitalistiche, anche qui il “libero mercato” funziona a due velocità: gli aiuti pubblici sono pressoché inesistenti per i lavoratori, mentre il governo marxista apre immediatamente i cordoni della borsa per le necessità dei padroni del vapore. Un esempio clamoroso di questa dinamica risale all’estate scorsa, quando il governo cinese, in uno dei vari momenti di difficoltà dell’economia borsistica cinese, intervenne per evitare il fallimento non solo delle banche “ufficiali”, ma persino delle cosiddette “banche ombra” – istituti non ufficiali, che offrono linee creditizie a clienti inaffidabili chiedendo in cambio interesse da usura, “cravattari” in grande stile insomma che poterono presentarsi senza remore come protagonisti della “nuova normalità”.(5)
La Cina, comunque, è un luogo chiave del pianeta, da tenere d’occhio e da conoscere in maniera oggettiva: cosa non facilissima, sia per la chiusura comunicativa del governo, sia per una serie di forzature ideologiche che, in varie direzioni, ne deformano la conoscenza effettiva. Già dal prossimo numero cercheremo di offrire ai lettori di Umanità Nova uno sguardo più approfondito sulla “questione cinese”.
Enrico Voccia
- Vedi PERRY, Elizabeth, Anyuan: Mining China’s Revolutionary Tradition, Oakland (California), University of California Press, 2012.
- PIERANNI, Simone, “La «nuova normalità» in Cina: licenziati in sei milioni”, in Il Manifesto, 03/03/2016.
- http://www.agichina.it/focus/notizie/vivere-a-pechino-br-/con-10mila-yuan
- Vedi ad esempio questo articolo della “testata socialista” Stato Potenza http://www.statopotenza.eu/15489/lesempio-del-socialismo-cinese-prima-parte e http://www.statopotenza.eu/15601/lesempio-del-socialismo-cinese-seconda-parte
- http://www.wallstreetitalia.com/cina-banche-ombra-chiedono-aiuti-pubblici-per-evitare-default/